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Reagan, Giovanni Paolo II e la caduta del muro


Reagan, Giovanni Paolo II e la caduta del muro

In questi giorni, vent' anni fa, finiva il secondo mandato presidenziale di Ronald Reagan, con l' elezione di George Bush senior. E con quell' atto si chiudeva un' epoca storica mondiale, un po' come accade per noi in queste ore. Mai un personaggio ha avuto, però, nel passato recente, un profilo più controverso e più netto (allo stesso tempo) di Ronald Reagan. Egli è stato molte cose insieme, senza essere mai una figura ambigua. Senza divenire mai realmente qualcosa di diverso da ciò che era realmente. La sua capacità di impersonare qualcuno, d' altra parte, gli veniva dalla professione d' attore. Il suo approccio tra il teatrale e lo spettacolare di sicuro ha contraddistinto un decennio, gli anni Ottanta, rimpianto ormai anche da chi non l' ha vissuto. Il periodo di Rambo e del cubo magico di Rubik, della Guerra Fredda e della modernizzazione rampante. Ma, soprattutto, l' era di Reagan, di Gorbaciov e di Giovanni Paolo II, più ancora di quanto gli anni Sessanta furono l' età di Kennedy, di Kruscev e di Giovanni XXIII. Tacito, il grande storico dell' antichità, negli Annali ricostruisce la Roma classica per mezzo di poche figure significative, usando spesso singoli personaggi per spiegare un intero periodo. Ho sempre pensato che Reagan lo avrebbe affascinato per la stessa ragione: un simbolo concreto di un momento peculiare della storia del mondo. E' divenuta ormai una consuetudine il far coincidere l' intera politica reaganiana, dal 1981 al 1988, con la parte centrale del pontificato di Giovanni Paolo II. Entrambi hanno contribuito parallelamente a spingere il comunismo sovietico fuori della storia. Entrambi hanno collaborato in modo decisivo a sgretolare il grande gigante dai piedi d' argilla. Alcune interpretazioni si fermano qui. Si arrestano davanti alle analogie degli effetti, senza cogliere le differenze realmente esistenti tra le cause. La forza della politica di Reagan è stata sintetizzata molto bene da Kissinger, quando ha riconosciuto i due pregi fondamentali del suo operare strategico: la profonda semplicità del linguaggio e la disarmante banalità degli obiettivi politici. Se fossimo ancora capaci di capire cosa significa il termine esatto, potremmo tentare di definirlo un mito americano. Ma, forse, sarebbe più opportuno parlare di lui come del prototipo dell' americano medio. In Reagan si raccoglievano le paure, il provincialismo e la grandezza imperialistica degli Stati Uniti. Niente potrebbe essere meno simile a Giovanni Paolo II, ovviamente, benché nessun altro personaggio del XX secolo sia mai stato così tanto accostato a lui nell' immaginario collettivo. Per Reagan, il comunismo era l' impero del male, era il nemico materiale dell' America. Perciò egli utilizzava continuamente un linguaggio viscerale, quasi d' artiglieria, per incitare alla lotta - ed esprimere l' animosità guerriera - del popolo americano contro la potenza negatrice di tutti gli ideali di democrazia e di libertà: l' Unione Sovietica. Come spiegare diversamente la costruzione dello scudo stellare o la volontà di militarizzare l' Europa con i missili a corto raggio SS 20? Giovanni Paolo II, a partire dal primo viaggio in Polonia del 1979, aveva invece percepito che la questione sovietica riguardava essenzialmente una dittatura totalitaria ed oppressiva che tiranneggiava gli slavi, e non un popolo antagonista all' Occidente. D' altra parte, egli era espressione della Polonia più d' ogni altra cosa. Per lui il comunismo non era una questione d' idee, ma di diritti calpestati. Per Reagan si trattava di mobilitare i cittadini liberi contro l' oppressione del grande nemico ideologico. Per Giovanni Paolo II erano le nazioni dell' Est che dovevano liberarsi dalla dittatura comunista. Il principio ispiratore della politica di Reagan era la vittoria dell' Occidente, mentre quello di Wojtyla era l' autocoscienza nazionale dei popoli slavi, schiacciati nel loro essere dal totalitarismo sovietico. Il Papa aveva concentrato tutta la sua strategia sulla sensibilizzazione dei connazionali ai principi fondamentali dell' antropologia e dell' etica, apparentemente senza nessuna implicazione politica. Questa è la chiave per comprendere la strenua difesa dei diritti d' espressione religiosa, e quel grido che ancora mi suona nella mente: "Uomo dell' Est sii te stesso!". Man mano che gli anni passavano, Giovanni Paolo II si convinse del valore di questa campagna culturale, e volle sempre meglio distinguere, ampliare, articolare la sua impostazione etica, separandola da quella degli altri. In particolare, dalla crociata politica e ideologica di Reagan, facendo emergere così il profilo non ideologico, ma filosofico e religioso della sua Ostpolitik. Per Reagan il mondo, le persone e i popoli non erano altro che un grande scacchiere pieno di pedine in cui giocare la propria partita politica. Anche i diritti umani, le libertà calpestate, non erano diverse da interessi di potere in campo. I valori, d' altra parte, per lui potevano essere negoziati come ogni altra cosa, magari attraverso la concessione di aiuti umanitari. Niente di tutto questo poteva entrare minimamente nella prospettiva di pensiero e nel cuore di Giovanni Paolo II. Egli con la stessa semplicità con cui dietro ad un politico vedeva costantemente la fragilità e la grandezza di una persona reale, così era capace di considerare un popolo come un insieme di cittadini e di famiglie, cui nessuna politica democratica o comunista di sorta potesse togliere dignità, libertà e speranza. La lettura critica del capitalismo, che di lì a poco sarebbe scaturita nell' Enciclica Centesimus annus del 1991, emergeva già allora in lui con una chiarezza estrema, visibile nel comportamento, cioè nella concreta pratica dei rapporti stabiliti con gli altri e sempre guidati da autentica umanità. Qualcosa stava cambiando sotto i nostri piedi allora, e noi non ce ne accorgevamo. Come una sorgente d' acqua sotto terra, la sua azione erodeva nel profondo la statica architettura violenta dei due blocchi contrapposti. In realtà, rispetto a tutti gli altri incontri internazionali, soltanto nel 1989 l' opinione pubblica mondiale percepì gli effetti del grande lavoro del Papa. Se avessimo dovuto attendere i tempi della diplomazia, tutto sarebbe potuto rimanere invariato fino ad oggi, e avremmo vista avverata la profezia di chi diceva che il comunismo non sarebbe caduto mai. Invece, qualcosa era cambiato eccome. Gorbaciov aveva compreso realmente il messaggio di Giovanni Paolo II, perché aveva sentito vibrare nel suo cuore le stesse corde slave di Wojtyla, suonate col medesimo strumento: la coscienza etica. Mi ricordo l' impressione che mi fece costatare durante l' incontro l' anno successivo tra Gorbaciov e il Papa, che il disegno che un tempo era idealistico, quasi utopico, di Giovanni Paolo II, adesso vinceva ogni strategia e ogni cancelleria, lasciando a bocca aperta i leader mondiali. Non ho potuto non pensare per un attimo a tutto questo, anche durante il funerale di Giovanni Paolo II, quando tutto il mondo stava seduto lì, sul sagrato di San Pietro, davanti alle sue spoglie. Il comunismo è caduto allora non perché gli Stati Uniti avessero vinto la Guerra Fredda, non perché lo scudo stellare avesse distrutto le speranze belliche della grande Russia, ma perché un uomo religioso, un Papa, un uomo dell' Est, aveva unito le coscienze dell' Oriente e quelle dell' Occidente, sull' altare universale dei diritti umani. E, alla fine del decennio, Reagan, storicamente vincitore, usciva vinto tanto quanto Breznev, perché in lui avevano regnato molti ideali politici, un' indubbia genialità nel cogliere le ragioni del popolo americano, un grande carisma Yankee, ma non la vera arma atomica di cui disponeva in quel tempo Giovanni Paolo II: la potenza dei valori antropologici universali e la fede incrollabile nella persona umana come tale. - JOAQUiN NAVARRO-VALLS http://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/2008/11/11/reagan-giovanni-paolo-ii-la-caduta-del.html

La picconata di Wojtyla al Muro

 

3 dicembre 1989. Profezia e politica, cristianesimo e diritti umani, fede e sindacato: lungo questi cammini spesso accidentati e imprevisti, di certo inediti nella storia della Chiesa, svolse la sua azione il polacco Karol Wojtyla, salito al Soglio di Pietro col nome di Giovanni Paolo II, nel corso degli anni 80.

L’obiettivo era quello di far crollare il Muro di Berlino, liberare la Polonia, aprire la strada all’Europa delle nazioni, unite dalle comuni radici cristiane.

 

Giovanni Paolo II, a partire dal 1978, porta una visione completamente nuova al vertice della Chiesa: quella di un Papa venuto dall’Est del continente. I suoi tre viaggi in Polonia negli anni che precedettero la caduta del comunismo, l’azione diplomatica a 360 gradi, il senso di una prospettiva spirituale e trascendente che guidava i suoi passi e il cammino dei popoli, fanno di Wojtyla un protagonista inevitabile di quei fatti dell’89 che hanno cambiato il corso della storia recente.

Ma proprio in ragione dei suoi molteplici ruoli – capo spirituale, interprete attento dei fatti politici, uomo di fede profonda – il giudizio sul suo operato, e in realtà sul peso che la sua azione esercitò nel decennio precedente la caduta del Muro di Berlino, è ancora oggetto di dibattito. Le opinioni in proposito si accavallano: Giovanni Paolo II preparò la caduta del Muro già dal suo primo viaggio in Polonia nel 1979; nessuno in Vaticano credeva che gli eventi si sarebbero succeduti in modo così rapido e sconvolgente, nemmeno il Pontefice; no, il Papa sapeva che tutto era giunto alla fine e anzi lo previde. Fra gli stessi testimoni del tempo si susseguono, a vent’anni di distanza, ragionamenti e giudizi differenti, anche se a sommarli insieme invece che di ricordi contraddittori, si ha piuttosto la sensazione di un mosaico composto da diversi stati d’animo e prospettive, tutti presenti nella stessa fase storica.

Il primo dicembre del 1989, Michail Gorbaciov compie la sua storica visita in Vaticano; e il fatto costituisce naturalmente un evento impensabile solo pochi anni prima. Fra il leader sovietico e il Papa si stabilisce un’intesa anche personale, fatta di cordialità e reciproca stima e simpatia; di questi sentimenti lo stesso Gorbaciov parlerà ripetutamente negli anni successivi. E tuttavia dietro quell’incontro c’è la storia lunga delle persecuzioni della Chiesa ad oriente, delle difficoltà diplomatiche, della battaglia di Solidarnosc in Polonia, e il timore che tutto, in qualche modo, possa precipitare; anche se la speranza cresce e i segnali dei progressivi cedimenti interni dei regimi vengono registrati in Vaticano.

Nel corso del suo primo viaggio in Polonia, nel 1979, il Papa, a Gniezo pronunciò una frase rimasta celebre: «Non vuole forse, Cristo, non vuole lo Spirito Santo, che questo Papa polacco, Papa slavo, proprio ora manifesti l’unità spirituale dell’Europa?». Secondo il suo segretario, il cardinale Stanislaw Dziwisz, da lì cominciò l’accelerazione degli eventi: «Il discorso di Gniezo segnò l’inizio della caduta della cortina di ferro che allora divideva l’Europa. Il crollo del Muro è cominciato lì, non a Berlino». Ma l’attuale arcivescovo di Cracovia ha spiegato di recente anche un altro aspetto importante della vicenda. Il Papa e i suoi collaboratori premevano con forza sulla Polonia, aiutavano Solidarnosc, e non temevano più di tanto una reazione militare sovietica: «Nessuno la prendeva seriamente in considerazione, dato che i sovietici erano già impegnati in Afghanistan». «Sapevamo che l’Urss – ha raccontato l’ex segretario di Wojtyla – non se lo poteva permettere. Su questo avevamo notizie precise direttamente dalla Casa Bianca, le abbiamo ricevute da Zbignew Brzezinski, consigliere per la sicurezza nazionale, e dallo stesso presidente Reagan il quale chiamò personalmente il Papa».

Eccolo, dunque un altro aspetto della storia: il rapporto fra Ronald Reagan e Giovanni Paolo II. E anche su questo legame s’intrecciano le interpretazioni: un’alleanza strutturata e ben definita o piuttosto una forte convergenza di interessi comuni. Sia come sia, caduto il Muro, dissolta la cortina di ferro, Giovanni Paolo II dividerà i suoi destini da quelli della superpotenza americana.

Il cardinale Joachim Meisner, oggi arcivescovo di Colonia, nel 1980 fu nominato da Wojtyla arcivescovo di Berlino, una diocesi che comprendeva anche la parte occidentale della città. Ancora, nel 1988, Giovanni Paolo II lo chiama, lui tedesco orientale, a governare la diocesi di Colonia nella Germania Ovest. «Né io – ha osservato di recente Meisner – né nessun altro, politici tedeschi compresi, avrebbe potuto immaginare a breve il crollo del sistema comunista, ma lui, con quella scelta ha lanciato coscientemente un segnale: “signori attenzione perché sta per succedere qualcosa”».

Sul periodo immediatamente precedente il crollo del Muro, il cardinale Achille Silvestrini, ha invece il ricordo di un evento che, nei sacri palazzi, coglie tutti alla sprovvista, compreso il Pontefice. «Non ci aspettavamo che sarebbe accaduto così in fretta – ha detto – non c’era alcuna previsione, anche da parte di Papa Giovanni Paolo II. Si aveva l’impressione che quel sistema sarebbe potuto durare per un tempo non prevedibile. E la stessa cosa ci dicevano anche i vescovi dei Paesi dell’Est, a cominciare ad esempio dal cardinale polacco Wyszynski». Insomma nonostante i «contatti costanti che avevamo con i governi, soprattutto in quei Paesi dove c’erano trattative per le nomine vescovili», la caduta del Muro arrivò all’improvviso.

Nelle sue memorie di diplomatico al servizio della Santa Sede, il cardinale Agostino Casaroli, ha lasciato una riflessione articolata di quel frangente storico, un primo abbozzo di analisi: «L’elezione di Giovanni Paolo II – ha scritto – avvenne in un momento particolare dell’evoluzione della situazione nel blocco sovietico, e in Polonia in particolare». «Sordi scricchiolii percettibili già da vari anni e che erano andati a mano a mano aumentando – ha spiegato Casaroli – lasciavano presagire l’avvicinarsi di crisi di compattezza e di stabilità nell’edificio grandioso del blocco sovietico». E se il fenomeno interessava in misura diversa più o meno tutti i Paesi dell’area comunista, «esso era particolarmente avvertibile in Polonia». A sua volta, Viktor Zaslavsky, docente di Sociologia politica presso la Luiss, esperto e studioso della realtà sovietica recentemente scomparso, rievocando il passaggio fatidico dell’89 sull’Osservatore romano, ha rilevato a proposito di Giovanni Paolo II: «Entro i confini della Polonia, che era uno dei Paesi chiave del Patto di Varsavia, Giovanni Paolo II ha avuto un ruolo straordinario». «La sua elezione a Papa – ha aggiunto Zaslavsky – ha prodotto una esplosione di entusiasmo, di patriottismo e di orgoglio nazionale che per un certo periodo ha cancellato tutta la paura accumulata nei decenni precedenti di dominio assoluto del partito unico e del suo apparato repressivo». Dunque «la Chiesa cattolica in Polonia ha rappresentato, senza dubbio, la base attorno a cui si è coagulata tutta l’opposizione al regime». Al contrario non è riscontrabile «niente di simile, invece, in Unione Sovietica dove la Chiesa ortodossa è stata sempre, non solo schiacciata, ma completamente soggiogata dallo Stato-partito. In Polonia non è stato così, per cui il ruolo del Papa è stato grandioso».
http://sottoosservazione.wordpress.com/2009/12/03/la-picconata-di-wojtyla-al-muro/

 






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